Il titolo di questo post potrebbe suonare irridente ma l'intenzione è tutt'altra. Perfect Days è un film giapponese. L’ha diretto Wim Wenders, un tedesco, ma è un film profondamente giapponese. Sì, c'entra lo Zen.
I metri di civiltà
C’è chi valuta il
livello di civiltà di un paese osservando le sue carceri e i suoi ospedali,
come scrisse Enzo Biagi nel suo saggio Russia. Per il viaggiatore che non ha intenzione di intraprendere certe deviazioni culturali, il bagno pubblico resta un
metro affidabile. Uno specchio della società sul concetto di bene comune, sul rispetto del prossimo e sul senso della collettività.
Il film di Wenders, parte proprio da lì.
Potrebbe
essere il film più bello di Wim Wenders.
Per ora mi sembra il suo lavoro migliore dopo Il cielo sopra Berlino, ma le classifiche, personali e non, cambiano col tempo. Perfect Days e Il cielo sopra Berlino si
assomigliano molto. Sono due storie di angeli. Due città, Tokyo e Berlino, che non sono più sfondo ma parte del cast.
Questo Cielo sopra Tokyo è nel vento che muove le fronde degli alberi nei ritagli di verde, miracoli nel cuore di una città polpo. È negli sguardi
di Hirayama, l’uomo in tuta blu che pulisce i gabinetti pubblici.
Cosa c’è
di più intimo?
Condividiamo più facilmente letti, stanze, uffici open-space, ma in un gabinetto senza porte avremmo l’apprensione guardinga di un gatto. Trovarlo pulito e in ordine dà un senso di relax, di sicurezza in un momento in cui si è vulnerabili. Hirayama si occupa di accudire questo bene comune. Si sveglia ogni giorno senza bisogno di una sveglia. Con cura si lava, trimma i baffi, con cura annaffia le piantine. Poi indossa la tuta blu, prende un caffè dal dispenser in cortile e parte per la sua giornata di lavoro. Giornate tutte identiche. Come l'angelo de Il cielo sopra Berlino, è segretamente innamorato di una donna che stavolta non fa la trapezista, gestisce un bar e canta The House of The Rising Sun, in giapponese. Nella sua pausa Hirayama mangia un panino e fotografa gli alberi. Fotografa la luce attraverso le fronde in bianco e nero e ogni santo giorno libero porta il rullino a sviluppare e ritira le foto della settimana precedente. Hirayama è un essere analogico. Ascolta musicassette e non ha uno smartphone. Ha un libro da leggere alla sera. La sua stanza da letto è un tatami e un futon che ripiega ogni mattina. Non sappiamo perché ha scelto questo mestiere, questa vita. Sappiamo che la sua cifra è la lentezza. Lo seguiamo nella sua cura metodica, nei gesti precisi che sanno di amore, non di condanna. Sappiamo i bagni pubblici di Tokyo che lui accudisce li hanno disegnati le archistar, per donare alla cittadinanza dei luoghi accoglienti. È questo ciò che gli interessa, preservare quel confort. E poi fotografare gli alberi nella pausa pranzo, ascoltare Lou Reed, Velvet Underground, Nina Simone e tutti i mostri sacri, gli eterni. Rigorosamente su audiocassette. Non si cura delle mancanze di rispetto di utenti e colleghi. La più grande mancanza di rispetto al suo lavoro viene dalla sorella, che lui non vede da anni, una che si presenta con l’autista e gli domanda: davvero pulisci i gabinetti pubblici? quasi costernata. Pulitori di cessi e spazzini si occupano del nostro confort e dell’igiene. Due voci irrinunciabili nel concetto di civiltà.
Un film senza trama
I famosi
turning point, e i dieci minuti al massimo in cui una situazione da stabile
diventa critica, qui vengono ignorati. Come in molte espressioni dell’esistenzialismo,
noi spettatori guardiamo un uomo nella sua routine. Ciò che gli accade intorno
consolida e descrive il concetto. Chi è abituato a ritmi serrati e ad aperture
può trovarlo noioso o inconcludente. Il film apre alla fine. Apre su un primo piano
magistrale del magnifico volto di Kōji Yakusho - Hirayama, con in sottofondo una
altrettanto magnifica e straziante Nina Simone. Nel volto di Hirayama nell’ultima
scena, di una intensità pazzesca, c’è tutto il senso del film. Un film fatto di cose non dette.
La punta
dell’Iceberg.
Più che un lavoro cinematografico, quello di Weders sembra letteratura minimalista. Hirayama non parla quasi mai, spesso non risponde alle domande. Gli indizi del suo vissuto, delle sue reazioni interiori, vengono quasi unicamente dalle sue espressioni facciali. In uno dei rari momenti in cui (quasi) dialoga è, quando lui e un tizio cercano di capire se le loro ombre siano sovrapponibili e si mettono a rincorrerle. Ti aggredisce l’ipotesi che il tizio sia Hirayama stesso. Nulla è spiegato, tutto è accennato, il vuoto verbale riempito dalla forza delle immagini. Il suono di una sola mano.
Alla conferenza stampa a Cannes regista e sceneggiatore comunicano che la sceneggiatura è stata scritta in quindici giorni. Sostengono di averlo girato come un documentario, su una scaletta scarna. Poi Kōji Yakusho, l'attore protagonista, ridendo, dice che non può svelare il segreto di Hirayama. Visto il film, leggo in questa risposta una operazione da punta dell’iceberg. Scene girate per essere poi tagliate, intenzionalmente, o domande e risposte mai pronunciate. Difficile costruire così bene una figura come quella di Hirayama, uno che pulisce i cessi ma al quale vorremmo assomigliare, senza una massa sommersa di emozioni, in uno script di ferro.
Nell’ultimo piano sequenza Kōji Yakusho, sulle note di Feeling Good e mentre il sole sorge su Tokyo, sembra ripercorrere la sua storia. Ci vedi Borges, quando scrisse che noi umani nella nostra vita disegniamo mappe e strade e che alla fine i nostri percorsi si sovrappongono alle linee dei nostri volti. Ci vedi dentro gli ultimi momenti di vita, quelli in cui si dice che l’essere umano rievochi tutta la sua esistenza in pochi secondi. L’ultima scena del film ha questa potenza. Il resto è un lungo, meticoloso percorso di cura di un giardino zen.