Il film comincia con un lungo piano sequenza notturno in una stalla. La camera è molto fluida e sono in primissima fila davanti a uno schermo gigantesco. Il primo pensiero è: se la camera è quella di Lars Von Trier, da questa distanza mi verrà la nausea. Non è questo il caso: dopo pochi secondi comincio ad avvertire gli odori della stalla. Sono lì dentro, sono nell’oscurità, dietro al ragazzo con la lampada. Poi il temporale.
Unghie sporche. Ci mette poco, il primo dettaglio significante, a bucare. Quel primissimo piano delle mani di un adolescente, un ragazzo di montagna iscrittosi ad una prestigiosa scuola alberghiera, ci annuncia subito un percorso rigorosamente in salita. E un film quasi pittorico.
Il contesto, esistente (si tratta del vero Istituto Rosmini) ci ricorda un’accademia militare storica, per le divise, per le sue vecchie mura, per la sua biblioteca, per la disciplina quasi spartana. La crescita del nuovo cadetto matura tra dure regole e frequenti colloqui, dove il protagonista, introverso e disastroso, tace e sogna il bosco, con le sue leggi come territorio di riferimento e di fuga.
La camera indugia spesso sui dettagli, sugli sguardi dei ragazzi, ma soprattutto su quello che ci raccontano le cose, sulla loro cura. Un vassoio in bilico affollato di calici, una scala dimenticata in biblioteca, un vecchio telefono su una pila di guide telefoniche. Come stendere le tovaglie e servire del vino in guanti bianchi. Come pulire i bicchieri. Spuntano continuamente oggetti quasi in disuso provenienti da un'altra epoca, indizi di decadimento che un architetto mio amico definirebbe ‘italico amore per la muffa’, spuntano quasi a confliggere con la continua richiesta di perfezione, nei gesti e nelle routine, da parte dei docenti-sistema nei confronti degli allievi.
Un film a bassissimo costo, girato nel vero collegio storico, con veri allievi e professori reali. Ma più vicino alla fiction che al documentario.
Il regista, Davide Maldi, riesce a coinvolgere e mantenere alta la tensione con piccoli stratagemmi azzeccati, alcuni dall'effetto comico, spostando la competizione sul piano interiore. Ci suggerisce che la vera lotta non è tra noi e uno sfidante in carne e ossa, ma tra noi e gli ambienti estranei, tra la realtà e il sogno, tra ciò cui aspiriamo e ciò che diverremo. L’Apprendistato non sembra neanche indulgere al ‘romanzo di formazione’. Nei romanzi di formazione compaiono dei deus-ex-machina, entità rivelatrici che inducono al cambiamento. Qui invece il percorso di crescita si gioca faticosamente, passo dopo passo, tra claustrofobia e senso di inadeguatezza, tra perfezione e decadenza, illuminato da sprazzi di estrema bellezza degni di un Luchino Visconti, nei gesti, negli sguardi e negli oggetti. Sprazzi che ci sorprendono ad ogni angolo del film.
Il racconto, lineare e ben pesato nei tempi, regge perfettamente senza cedere al facile gancio dei soliti sentimenti nazional-popolari, restando concentrato sui protagonisti, sulle loro sfide e le ribellioni, sulla perdita dei sogni. Un film crudo, dove non c’è spazio per mamme e fidanzatine.
L’apprendistato è un magistrale ritratto del cammino verso l’età adulta, di un faticoso ingresso in una società che ci accetterà solo dopo una completa spersonalizzazione. O di drastica revisione di noi stessi, dipende dai punti di vista. La cura nel montaggio, nella fotografia e soprattutto nel sonoro (una pecca purtroppo cronica nelle produzioni italiane che invece qui è stato curato al massimo) lo mette sullo stesso piano di una produzione internazionale di alto budget. Un film senza sbavature, senza errori. Un piccolo capolavoro di perfezione.
Al festival di Locarno ha avuto più repliche e sono state aperte più sale per far fronte alla generosa affluenza del pubblico. Discutibili, anche se il loro giudizio è stato molto positivo, le chiavi di lettura da parte dei conduttori del festival. Lunghissimi gli applausi dal pubblico, a prescindere dalle interpretazioni.
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