Parliamo tutti di
evoluzione, di un ‘nuovo ambiente’ cui i media tradizionali devono adattarsi. Il
nuovo ambiente in realtà è composto di due sistemi diversi. Uno è quello dei
social, che possiamo paragonare a un buco nero, con la loro struttura centripeta.
L’altro è quello dei motori di ricerca, che ha dinamiche centrifughe, cioè l’esatto
contrario.
Gli utenti dei
social sono prevalentemente utenti da 150 caratteri, meme e foto del micio, gli
utenti di Google sono quelli che scartabellano a fondo Wikipedia e i vari contenuti
su altri siti d’informazione. Ci trasformiamo in una delle due forme di utenza
quando decidiamo di rivolgerci all’uno o all’altro di questi due sistemi. Equipararli
legislativamente imponendo a entrambi i sistemi una tassa sui link (quando poi il
vero topic sarebbero gli estratti) è un errore grossolano. Significa che non si è capito bene cosa è il web.
Dall’altra parte c’è
il disprezzo dei social media e di Google nei confronti dei diritti d’autore,
che va frenato. I diritti d’autore non sono una bieca espressione del
capitalismo, come mi pare di cogliere a volte, ma costituiscono il
sostentamento di milioni di persone per niente capitaliste (come me per
esempio) che campano di copie vendute, o di un passaggio radio o TV in più di
un loro ‘prodotto intellettuale’. Nell’intrattenimento e nei media non ci sono molte
altre forme di remunerazione. Quando (se) passa, o vende (se vende), prendi i
soldi. Punto. Oppure prendi i soldi da una testata d’informazione, che a sua
volta ha il diritto di tutelarsi, visto che paga per i contenuti e cerca di
sopravvivere con la pubblicità e gli abbonamenti. The Guardian un
paio d’anni fa ha provato (pubblicizzandosi su se stesso) che Google trattiene
più dell’80% degli introiti pubblicitari. Su ogni sterlina investita dalla testata
sulle sue stesse pagine, ha avuto indietro solo 20 pence.
Il piano di Big Data è evidente: sostituirsi agli editori
e intascare utili spaventosi gestendo il monopolio della pubblicità, e dato che c'è, anche delle informazioni. Per darvi
una idea: con un blog da 100.000 visite all’anno da Google intaschereste al
massimo 100 Euro. È giusto che sopravvivano solo quelli capaci di milioni click,
magari su un solo post, o un solo video diventato virale? Sparirebbero tutte le
testate autorevoli, tutte le informazioni in una lingua minoritaria, tutto ciò
che è di nicchia per far posto ai tabloid e alla fuffa, agli acchiappa-click. Avremmo
un’informazione fatta esclusivamente di annunci pubblicitari mascherati, di pitoni
che mangiano poveri contadini, o di Belen che girano nude davanti al (povero) bambino.
O notizie non verificate. Con il mito del citizen-journalism, il gratis e le tariffeoffensive che vengono erogate ai freelance, l’informazione è giàin serio pericolo. Complici, va detto, anche gli editori.
Ma sotto la bandiera
‘no-copyright’ e ‘libertà di informazione’ può nascondersi una realtà molto più
insidiosa di un semplice sogno utopico. Sono convinto che molti ci siano
cascati in buona fede, ma per favore, non confondiamo le royalties percepite da
certe farmaceutiche o da gente come Schkreli, con i diritti d’autore sull’informazione
o sull’intrattenimento: questo è vero fumo negli occhi. Non possiamo non vedere che i governi, a grande
richiesta popolare, sono sempre meno disposti a investire in questi campi.
Troppi sprechi! Troppa lottizzazione dei partiti! Via i sostegni alla cultura, all’informazione,
tanto i giovani guardano youtube… a che serve una TV di stato? Vi suona
familiare il ritornello? Bene, vi state abituando a ciò che ci aspetta: il
monopolio totale di Big Data, dove la gente produce contenuti gratis pur di
farsi un nome, o semplicemente apparire. È già in atto.
Per quanto maldestri,
approvo i tentativi dell’Unione Europea di mettere un freno allo strapotere di
Big Data, tra l’altro: corporate americane che eludono sistematicamente le tasse.
L’Europa è probabilmente l’unica entità politica al mondo che può opporsi con successo,
anche se disapprovo questo approccio che mi è parso più lobbistico che ben
intenzionato. Ma nessuno degli stati membri potrebbe vincere da solo, contro
mostri capaci del bilancio di una o più nazioni europee insieme. Poi ci sono l’Iran, l’Egitto, la Cina… anche loro
mettono paletti. Ma per altri motivi. Adesso sì, possiamo parlare di censura.
Seguendo un sempre valido suggerimento
di Noam Chomsky,
riporto il link di un giornale finanziario: alla finanza (sostiene Chomsky) interessano i fatti, non le emozioni.
Nessun commento:
Posta un commento
lascia un tuo commento