giovedì 29 agosto 2013

la variabile umana: un noir come si deve

In questo noir d’autore indizi e nessi affiorano qua e là opachi e penosi come i sintomi di un cupo malessere. Una Milano livida, piovosa, da vicolo di servizio, da security-cam. 

Un magistrale Silvio Orlando 
ci dà l’immagine perfetta di un uomo depresso, incapace di elaborare un lutto, guidato da etica e routine, sull'orlo della disintegrazione. Ferito da una figlia che lo rifiuta e che si mette - e lo mette - nei guai, l’ispettore è spiazzato dagli eventi e da se stesso. Rifiuta le offerte d’aiuto, delle quali non riesce a capire né a condividere le motivazioni: le vede come una stortura. E' un tragico personaggio conradiano l’ispettore Monaco, che vede l’etica come l'elemento in cui riconoscersi prima di affondare.


  Gli indizi del mondo (e del modo) in cui sta affogando, emergono pesanti da sotto un divano, dal filtro di una lavatrice, dal delirante show-room di uno stilista super trendy in voga tra prostitute esotiche e giovanissime viziate. Indizi che diventano l’aria stessa che l’ispettore respira, secondo dopo secondo in una città di perfetti egoisti. Fra terribili dubbi e personaggi  che sembrano tutti emissari di un Giano bifronte, l’ispettore vaga a tentoni verso una figlia più che difficile e verso verità inaccettabili e non accettate.
 
Il Silvio Orlando, funambolico e impeccabile tra il control-freak e l’indifeso, cerca di  stimolare un dialogo con la figlia, ma il dialogo non è possibile. Sospetti, malesseri e rimorsi per una relazione forse condotta distrattamente in nome della solita routine  inquinano ogni possibilità. 
   In una scena terribilmente ambigua, quella dell’albergo, una di quelle dove ti vergogni di aver pensato ciò che t'é venuto in mente come soluzione, capisci perché sei arrivato fin lì, verso la fine del film.
   E ci sei arrivato col fiato sospeso.
Ci sei arrivato senza sparatorie, né inseguimenti vertiginosi. Al massimo un bellissimo piano sequenza di una corsa in motorino, reso ancora più amaro da una colonna sonora perfetta ed efficace, come in molte scene, nella sua dissonanza.
 
Per raccontare storie così difficili e per farlo senza troppi dialoghi, senza una barbosa camera fissa sulle facce, senza ricorrere a didascalie… insomma: per fare un film fatto bene ci vuole anche una fotografia all’altezza, una fotografia che sia in grado di suggerire, frugare, insinuare, disgustare, ma anche riscattare. Purtroppo il riscatto, malgrado il finale semi-aperto è amaro. Ci racconta che alla fine chi ci rimette, vuoi per coerenza, etica o impotenza davanti agli eventi, sono sempre gli stessi. Da sempre. 
Sì, perché l’ispettore Monaco, a ben guardarlo,

 siamo proprio noi. 

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