Caro papà,
il giorno del tuo funerale sono stato
brevissimo, due frasi. Erano tutti impegnati a brindare al tuo
ricordo e non ho voluto essere autoritario. In fondo tu volevi un
party, senza lacrime, senza troppi discorsi: un party.
Ci siamo riusciti.
Ci siamo riusciti.
Mamma
era mezza friulana e la parola focolai, il focolare, aveva per noi un senso
profondo. Ma per noi forse quel fuoco è stato un pianoforte. Adesso
lo strimpella Matilde. Marisa, tua nipote, s’è messa al piano, il pianoforte di
tua madre, nonna Aurora, a suonare pezzi che eseguiva con a te a quattro mani. Abbiamo ballato.
Mancavi tu.
Per anni io e Marco ci siamo sentiti spiazzati dal tuo
stile quasi dimesso. Invece era il tuo insegnamento più profondo: essere ciò
che si è, al massimo ciò che si fa, senza tante storie. Ti sei sempre fatto in
quattro per le persone che avevano bisogno e un intero quartiere te ne è ancora
grato. Non so di nessuno che possa sentirsi offeso da un tuo comportamento.
Questa tua eredità è spiazzante.
L’altra eredità è che ci hai insegnato a ridere. Ero già
grandicello, portavo già moto di grossa cilindrata e tu, trentasei anni più di me, ti
sei messo a fare il fantasma sui tetti del castello di Santa Severa, con dei
lenzuoli bianchi e catene sui coppi per spaventare una coppia di amici che
avevate già terrorizzato, tu e Angelo, con storie da voi artatamente inventate sui fantasmi residenti.
In fondo in Amici Miei, uno dei tuoi film preferiti, ti avevo intravisto. Ma io non ero quello che gridava ‘Papà!’ alla stazione, ero uno di quelli che davano schiaffi alla gente affacciata dai vagoni. Ero un amico tuo. E anche Marco. Non siamo per niente gente che si fa problemi a ridere. Il riso che abbonda sulla bocca degli stolti… in casa, era una bestemmia. Tu ci hai insegnato il Mare, che per te era un elemento naturale.
In fondo in Amici Miei, uno dei tuoi film preferiti, ti avevo intravisto. Ma io non ero quello che gridava ‘Papà!’ alla stazione, ero uno di quelli che davano schiaffi alla gente affacciata dai vagoni. Ero un amico tuo. E anche Marco. Non siamo per niente gente che si fa problemi a ridere. Il riso che abbonda sulla bocca degli stolti… in casa, era una bestemmia. Tu ci hai insegnato il Mare, che per te era un elemento naturale.
Ci sentivamo per telefono o via email e vorrei ancora dirti
tante cose. Vorrei discutere con te un nuovo film o un libro, o guardare insieme
il catalogo di una mostra d’arte, commentare uno strano andazzo nel mondo.
Tranquillo papà, io continuerò a farlo. Ho portato con me la tua libreria e
l’enciclopedia di storia universale. Parlavamo tanto di cinema e di libri, e
questo dialogo mi manca da un pezzo. Ho capito che volevi andartene da quando
hai smesso di leggere. Eri troppo stanco per leggere, mi avevi detto.
Quel giorno hai chiesto a Cristina di cambiare la data,
perché quel giorno lì, oggi, non ti piaceva. Lei ti rispose che solo il
padreterno poteva farlo e tu hai pensato bene di andare a parlare con lui, o
con chiunque fosse il manager del tempo.
Non credo che ci rivedremo in qualche aldilà. Sono scettico,
come te. I preti e la religione ci hanno dato una buona educazione e tanto conforto
umano, pratico, ma tant’è… lo sanno anche loro. Per ricordarti resta la
letteratura, come questa epigrafe digitale. Poi c’è la letteratura che è nei
geni. Lì ci ha pensato Marco. L’espressione del tuo ricordo genetico c’è, si
chiama Matilde.
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