sabato 3 febbraio 2024

perfect days – lo zen e l'arte della manutenzione dei gabinetti pubblici


Il titolo di questo post potrebbe suonare irridente ma l'intenzione è tutt'altra. Perfect Days è un film giapponese. L’ha diretto Wim Wenders, un tedesco, ma è un film profondamente giapponese. Sì, c'entra lo Zen.


I metri di civiltà

C’è chi valuta il livello di civiltà di un paese osservando le sue carceri e i suoi ospedali, come scrisse Enzo Biagi nel suo saggio Russia. Per il viaggiatore che non ha intenzione di intraprendere certe deviazioni culturali, il bagno pubblico resta un metro affidabile. Uno specchio della società sul concetto di bene comune, sul rispetto del prossimo e sul senso della collettività. Il film di Wenders, parte proprio da lì.

 

Potrebbe essere il film più bello di Wim Wenders.

Per ora mi sembra il suo lavoro migliore dopo Il cielo sopra Berlino, ma le classifiche, personali e non, cambiano col tempo. Perfect Days e Il cielo sopra Berlino si assomigliano molto. Sono due storie di angeli. Due città, Tokyo e Berlino, che non sono più sfondo ma parte del cast. Questo Cielo sopra Tokyo è nel vento che muove le fronde degli alberi nei ritagli di verde, miracoli nel cuore di una città polpo. È negli sguardi di Hirayama, l’uomo in tuta blu che pulisce i gabinetti pubblici. 


Cosa c’è di più intimo?

Condividiamo più facilmente letti, stanze, uffici open-space, ma in un gabinetto senza porte avremmo l’apprensione guardinga di un gatto. Trovarlo pulito e in ordine dà un senso di relax, di sicurezza in un momento in cui si è vulnerabili. Hirayama si occupa di accudire questo bene comune. Si sveglia ogni giorno senza bisogno di una sveglia. Con cura si lava, trimma i baffi, con cura annaffia le piantine. Poi indossa la tuta blu, prende un caffè dal dispenser in cortile e parte per la sua giornata di lavoro. Giornate tutte identiche. Come l'angelo de Il cielo sopra Berlino, è segretamente innamorato di una donna che stavolta non fa la trapezista, gestisce un bar e canta The House of The Rising Sun, in giapponese. Nella sua pausa Hirayama mangia un panino e fotografa gli alberi. Fotografa la luce attraverso le fronde in bianco e nero e ogni santo giorno libero porta il rullino a sviluppare e ritira le foto della settimana precedente. Hirayama è un essere analogico. Ascolta musicassette e non ha uno smartphone. Ha un libro da leggere alla sera. La sua stanza da letto è un tatami e un futon che ripiega ogni mattina. Non sappiamo perché ha scelto questo mestiere, questa vita. Sappiamo che la sua cifra è la lentezza. Lo seguiamo nella sua cura metodica, nei gesti precisi che sanno di amore, non di condanna. Sappiamo i bagni pubblici di Tokyo che lui accudisce li hanno disegnati le archistar, per donare alla cittadinanza dei luoghi accoglienti. È questo ciò che gli interessa, preservare quel confort. E poi fotografare gli alberi nella pausa pranzo, ascoltare Lou Reed, Velvet Underground, Nina Simone e tutti i mostri sacri, gli eterni. Rigorosamente su audiocassette. Non si cura delle mancanze di rispetto di utenti e colleghi. La più grande mancanza di rispetto al suo lavoro viene dalla sorella, che lui non vede da anni, una che si presenta con l’autista e gli domanda: davvero pulisci i gabinetti pubblici? quasi costernata. Pulitori di cessi e spazzini si occupano del nostro confort e dell’igiene. Due voci irrinunciabili nel concetto di civiltà.

 

Un film senza trama

I famosi turning point, e i dieci minuti al massimo in cui una situazione da stabile diventa critica, qui vengono  ignorati. Come in molte espressioni dell’esistenzialismo, noi spettatori guardiamo un uomo nella sua routine. Ciò che gli accade intorno consolida e descrive il concetto. Chi è abituato a ritmi serrati e ad aperture può trovarlo noioso o inconcludente. Il film apre alla fine. Apre su un primo piano magistrale del magnifico volto di Kōji Yakusho - Hirayama, con in sottofondo una altrettanto magnifica e straziante Nina Simone. Nel volto di Hirayama nell’ultima scena, di una intensità pazzesca, c’è tutto il senso del film. Un film fatto di cose non dette.

 

La punta dell’Iceberg.

Più che un lavoro cinematografico, quello di Weders sembra letteratura minimalista. Hirayama non parla quasi mai, spesso non risponde alle domande. Gli indizi del suo vissuto, delle sue reazioni interiori, vengono quasi unicamente dalle sue espressioni facciali. In uno dei rari momenti in cui (quasi) dialoga è, quando lui e un tizio cercano di capire se le loro ombre siano sovrapponibili e si mettono a rincorrerle. Ti aggredisce l’ipotesi che il tizio sia Hirayama stesso. Nulla è spiegato, tutto è accennato, il vuoto verbale riempito dalla forza delle immagini. Il suono di una sola mano.

Alla conferenza stampa a Cannes regista e sceneggiatore comunicano che la sceneggiatura è stata scritta in quindici giorni. Sostengono di averlo girato come un documentario, su una scaletta scarna. Poi Kōji Yakusho, l'attore protagonista, ridendo, dice che non può svelare il segreto di Hirayama. Visto il film, leggo in questa risposta una operazione da punta dell’iceberg. Scene girate per essere poi tagliate, intenzionalmente, o domande e risposte mai pronunciate. Difficile costruire così bene una figura come quella di Hirayama, uno che pulisce i cessi ma al quale vorremmo assomigliare, senza una massa sommersa di emozioni, in uno script di ferro. 

Nell’ultimo piano sequenza Kōji Yakusho, sulle note di Feeling Good e mentre il sole sorge su Tokyo, sembra ripercorrere la sua storia. Ci vedi Borges, quando scrisse che noi umani nella nostra vita disegniamo mappe e strade e che alla fine i nostri percorsi si sovrappongono alle linee dei nostri volti. Ci vedi dentro gli ultimi momenti di vita, quelli in cui si dice che l’essere umano rievochi tutta la sua esistenza in pochi secondi. L’ultima scena del film ha questa potenza. Il resto è un lungo, meticoloso percorso di cura di un giardino zen.

It's a new dawn
It's a new day
It's a new life
For me
And I'm feeling good
I'm feeling good

 https://nonsoloshamandura.blogspot.com/2016/07/cartoline-dal-giappone-kyoto-e.html

https://nonsoloshamandura.blogspot.com/2016/07/cartoline-dal-giappone-segnali-da-una.html

 

 

 

sabato 30 dicembre 2023

Barbie vs Oppenheimer



Spoiler: vince Barbie.

Tra i film importanti visti quest'anno: due. Usciti in contemporanea, si sono contesi l'audience. In passato la scelta sarebbe stata giudicata come un suicidio. Prima si ritardavano i 'release' nelle sale di film da grosso budget proprio per evitare la concorrenza diretta. Barbie e Oppenheimer hanno dimostrato che quel concetto applicato al cinema, come tanti altri in economia, erano sbagliati. Ero ovviamente più propenso a vedere Oppenheimer, che ho visto come primo film. Barbie mi sembrava intrigante. Se Oppenheimer faceva parte di quel retaggio proprio a chi ha vissuto la guerra fredda, Barbie e Ken erano pervasivi anche nella vita di tutti i piccoli maschi. Difficile trovare un ragazzino cresciuto sotto l'incubo dell'invenzione di Oppenheimer - ci è solo arrivato per primo - che non abbia maneggiato neanche di sfuggita una Barbie. Sarebbe stato un maschio senza sorelle e senza amiche femmine.


I due film a confronto.

Oppenheimer è il papà della bomba atomica. Barbie è la madre di tutte le bambole che raffigurano donne reali. 1-0 per Barbie. Oppenheimer dura tre ore e non te ne accorgi: 1-1. Non te ne accorgi perché il montaggio, la sceneggiatura e l’uso della camera ti tengono inchiodato nonostante il passo che non è mai veloce né lento, semplicemente perfetto: 2-1 per Oppenheimer. La ricostruzione degli ambienti universitari e di Fort Alamo è spettacolare: 3-1 per Oppenheimer. Gli attori che interpretano le figure storiche di più: 4-1. Si può dire lo stesso di Barbie. Barbie e Ken sono perfetti e il mondo Barbie è da Oscar per la scenografia: 4-3. La scena iniziale di Barbie è seconda soltanto a Odissea nello spazio, cui si ispira: 4-4. In più fa sbellicare: 5-4 per Barbie. Barbie s’accorge di poter poggiare i talloni in terra e avere segni di cellulite: 6-4 per Barbie. “I Russi dicono di non avere uranio” 6-5 per Oppenheimer. Oppenheimer è costretto a costruire uno strumento di morte, Barbie ha strani pensieri di morte: 7-6 per Barbie. Oppenheimer è un viaggio nella fisica dei tempi. Barbie è un viaggio nell’emancipazione femminile, ancora un punto a testa: 8-7 per Barbie. Il mondo Barbie è una società matriarcale e Ken si sente realizzato solo accanto Barbie, una sorta di costola di Eva: 12-7 per Barbie (sì, questa vale 4 punti). Barbie è un fiume di citazioni: 13-7 per Barbie. Oppenheimer cerca di metabolizzare la paternità della bomba, Barbie diventa umana, indossa un paio di Birkenstock e si presenta per la sua prima visita ginecologica, e di morire non glie ne frega più una nulla.

Un finale, quello di Barbie, che quasi supera Il cielo sopra Berlino. 25-7 per Barbie.

martedì 12 dicembre 2023

Lazarus



Tra le cose migliori viste in quest'anno c'è sicuramente Lazarus.

Andato in scena a New York sette mesi dopo la scomparsa dell'autore, Lazarus è considerato il testamento artistico di David Bowie. Scritto con il drammaturgo Enda Walsh, Lazarus è un'opera che qualcuno ha definito juke-box musica. Bowie stesso aveva scelto una definizione più precisa: teatro musicale.

Lazarus è una esplorazione della mente, dell’identità e della coscienza di sé o forse semplicemente un viaggio nella poliedricità artistica di una delle rock star più feconde (e gentili) della storia della musica moderna. Le due letture non si contraddicono.

Thomas Jerome Newton è un astronauta esaurito dalla sua stessa esistenza. Giace stremato su una poltrona che gira su un palco rotante. Come nella migliore tradizione delle astronavi o delle situation-room, lo sovrastano schermi giganti. Cinque schermi giganti. Il cinque, benché il criterio che ce lo assegna sia applicabile a tutti i mammiferi, secondo alcune tradizioni esoteriche è il numero dell’Uomo. L’uomo in questione beve gin. Sulle note di It’s no game, un magnifico Manuel Agnelli ricalca così da vicino la modulazione di Bowie che stringi i braccioli. Gli schermi rifletto le possibilità dei vari stati di fusione tra idee, ricordo, realtà. Pensieri e idee si materializzano. Una voce, La ragazza, si annuncia come una idea di Thomas Jerome. Newton. La tua mente ti offre una via d’uscita, dice. Il pentagramma è il pulsante che spalanca le porte del mondo magico, sottile. Ora le porte sono spalancate e può entrare di tutto, anche un'entità malvagia, un assassino. 

Questa la mia lettura in chiave esoterica.  La chiave psicologica suggerisce che l'inconscio genera anche mostri. L'altra mia lettura che insiste più forte di tutte è: uccidi i tuoi cari, come scrisse Hemingway sul perfezionamento del romanzo. Forse le letture si sovrappongono davvero. Ce ne sono troppe. Impossibile coglierle ed elencarle tutte.

Casadilego, La ragazza, con le immagini del Viking sullo sfondo, inonda la platea con un Life on Mars da brividi e che oggi suona ancora più amaro e attuale di ieri. Lazarus, anche se chi apprezza la musica di Bowie ne uscirebbe contento lo stesso, non è un revival né un tentativo di riciclaggio della sua musica, è una sorta di sequel de L'uomo che cadde sulla Terra. Nella peggiore delle ipotesi un'opera fondata sulle autocitazioni,. 

Potrebbe essere diverso un testamento artistico?  

https://youtube.com/shorts/ZRxlUB97tZg?feature=shared 

Lazarus è il dramma di un uomo che non può morire. 

L'antitesi più schietta della vita, dal punto di vista biologico, non è la morte, bensì la non morte. Lazarus è un uomo prigioniero di ciò che fantastica, costretto alla reiterazione dei suoi ricordi, alla testimonianza continua del suo fantasticare situazioni che si sviluppanoin modo parallelo e contraddittorio e senza controllo. Forse per contrastare il senso di perdita, costante dell'esperienza umana. Lazarus spalanca le porte del Weltschmerz. Un Weltschmertz che si conclude con Heroes, scritta da Bowie mentre osservava il suo produttore baciare la sua amante davanti al muro di Berlino, l’amore come attimo di gloria che trascende confini, limiti e convenzioni. Lazarus è forse un'inno all'immaginazione, quella che andò al potere negli anni d'oro di Bowie, del rock e forse del pensiero umano. Ne esci commosso, contento, carico. Arricchito. Come dopo un’immersione nel flusso creativo multidisciplinare di un autore che... Bowie, sì: è immortale.



martedì 7 luglio 2020

C'erano una volta Morricone e la vera musica per il cinema




Cannes, 1984. Alla fine della proiezione di C'era una volta in America, il pubblico si alza in piedi ed applaude per 20 minuti. Venti minuti di fila, un record nella storia del cinema. Il film chiude su un primo piano di De Niro in una fumeria d'oppio.
Il brano è Deborah's Theme, autore: Ennio Morricone.

Quel tema sembra la risposta moderna, sensuale, all'Adagietto di Mahler, dalla quinta sinfonia, che fu a sua volta colonna sonora di Morte a Venezia, di Visconti. Qualcosa di indimenticabile. Allora la gente usciva dal cinema con delle melodie in testa.

C'erano una volta le colonne sonore.
Quando le colonne sonore non erano un semplice commento, ma parte attiva, musiche con la dignità di attore. Oggi la tendenza è opposta, ma quando c'era un cinema al massimo della sua espressione, si ricorreva a epici flash-back, a lunghe meditazioni. Kubrik faceva danzare astronavi e astronauti per delle eternità e senza un dialogo perché in quel momento parlavano Strauss o Ligeti.

Le immagini erano montate sul pezzo perché la musica non era 'solo' un commento: poteva decidere il successo al botteghino. Ho visto Giù la testa, uno dei film di Sergio Leone che mi hanno entusiasmato meno, solo per la colonna sonora. E quando parte il tema di Sean, con il flash-back che inserisce una storia nella storia, quello vale quasi tutto il film. La storia del cinema è piena di clip prima ancora di MTV.

Hans Zimmer ha firmato colonne sonore pazzesche, ma si guarda bene dall'introdurre melodie trascinanti. Morricone lo faceva. Lo faceva sempre. Era agli antipodi del minimalismo teorizzato da Brian Eno: la musica non deve prevalere sulle immagini, ma creare un paesaggio, uno sfondo.

Sarà, ma ho saputo molto dopo aver visto  Heat che nella colonna sonora c'era Brian Eno, mentre con i film di Tornatore te ne accorgi subito di chi è la mano sullo spartito.
E' noto che Leone chiedesse a Morricone di scrivere la musica basandosi solo sulla sceneggiatura e che la facesse ascoltare sul set, durante le riprese, per aiutare il cast a entrare nello stato d'animo. Un'abitudine adottata in seguita da altri registi, come Terrence Malick.

Sarò cresciuto guardando film dove Morricone, Ortolani, e John Barry pianificavano su uno spartito le nostre reazioni emotive prima ancora delle immagini. E i registi li rispettavano, con lunghi piani sequenza, vere meditazioni, i tempi adattati alla musica.
In quegli anni italiani e francesi si assomigliavano, nella cinematografia, nella musica, e in un sacco di altre cose... mentre facevano man bassa di premi e s'imponevano nella cultura mondiale.
Oggi le produzioni americane da mega-budget e mega-merchandising ci propinano personaggi dei comics e film che assomigliano sempre di più a dei videogame.

Quel cinema lì sceglie come colonna sonora l'ultimo successo, non conta se punk, dance o grunge, l'importante è che sia il pezzo del momento. I registi più intellettuali preferiscono lunghe suite - drammaticissime - di tre note tre.
Non te ne ricorderai neanche una di quelle tre note, una volta uscito dal cinema.

Addio Maestro.

Il saluto più bello è di Vasco Rossi:

"Il privilegio dell'artista è morire sapendo che la sua arte non morirà mai..W il Maestro Ennio Morricone!"






















lunedì 1 giugno 2020

Quale normalità? Il mondo prima del COVID-19 non era per niente normale




Si parla di ritorno alla normalità, ma cosa intendiamo per normalità?
La pandemia ha evidenziato drammaticamente le criticità di un sistema mondiale inadeguato, un sistema mai così vicino al collasso.

L'intero pianeta, salvo pochissime eccezioni, un giorno si è accorto di essere rimasto senza le mascherine perché le fabbriche erano tutte in Cina, e che i posti in terapia intensiva e i letti negli ospedali non erano sufficienti perché in nome dell'austerity si era andati sulla sanità con la scure. Oppure ci si era affidati all'iniziativa privata, che si adegua solo alle leggi della domanda e dell'offerta.

Illuminante Noam Chomsky da una recente intervista sulla crisi COVID-19 :
“Non possiamo aspettarci che le farmaceutiche investano miliardi in un piano di prevenzione delle pandemie, semplicemente perché non rende”.
Volendo controbattere Chomsky si potrebbe obiettare che il ruolo di prevenzione in un sistema liberale basato sull'efficienza del privato spetterebbe alle assicurazioni.
Ci sono riuscite? Anzi: ci hanno mai provato?

La 'normalità' è ancora il mondo del 2008, quello dei Lehmann Brothers, e delle banche che hanno continuato a giocare coi derivati. E' il mondo dei vari Moody’s e Standard & Poors, emeriti privati, che recensiscono il debito pubblico di nazioni, influenzandone le scelte di bilancio.
Questo, non facciamo finta di niente, è il mondo che dovrebbe dare una risposta all'emergenza economica, è il mondo in cui la maggior parte dei paesi non è riuscita, o non ha voluto, dare risposte adeguate all'emergenza sanitaria. 


Non era un mondo normale 

quello che a poco a poco ci ha inculcato diffidenza, se non disprezzo, verso la 'cosa pubblica', un mondo che ha lentamente eroso concetti come 'Stato e Collettività' (chiamatelo come volete questo concetto) per consegnare all'iniziativa privata il destino e la salute dei cittadini. E' il mondo che ha confutato il riscaldamento globale, pagato scienziati per negarlo, incentivato la deforestazione.
E' il mondo che ha scatenato guerre ventennali totalmente inconcludenti (Iraq, Afghanistan, Siria, Libia) intorno al petrolio e agli oleodotti.

Non era un mondo normale quello che ha arricchito a dismisura l’1% della popolazione mondiale a discapito del restante 99% , un mondo che ha sempre favorito l'approvvigionamento energetico da fonti non rinnovabili o altamente inquinanti, con massicci aiuti di stato anche dove convenivano le energie alternative.

Non era un mondo normale quello delle tasse stratosferiche sui combustibili, che hanno reso i governi tossicodipendenti dai fossili abituandoli a introiti fiscali che arrivavano al 5% dell'intero gettito.

Non era un mondo normale quello dove i colossi del web hanno di fatto imposto monopoli, distrutto piccole e medie economie, messo in pericolo l'editoria mondiale (e quindi la libertà di stampa) azzerando mestieri, eludendo tasse e diritti d'autore.

Non era un mondo normale quello che ha ignorato i ripetuti allarmi lanciati dalla scienza su emergenza climatica e su una imminente pandemia.
A Washington, nella tipica narrazione 'binaria' presa in prestito da Hollywood, l'hanno risolta così: il COVID-19 è scappato da un laboratorio. Nella logica semplificata, quella adatta a soggetti affetti da deficit dell'attenzione, deve esserci sempre un nemico.
Rigorosamente straniero.
Oggi fronteggiano una rivolta interna.

Illuminante, per chi l'ha letto o abbia voglia di farlo, è anche il saggio di Jared DiamondArmi acciaio e malattie. Tutte le pandemie della storia umana sono state innescate dalle nostre convivenze con specie animali, selvatiche e/o addomesticate. Nel passato il morbillo, il vaiolo, la peste e gli orecchioni sono stati il prezzo pagato per la domesticazione dei bovini o per la convivenza con i ratti e le loro pulci. Oggi abbiamo AIDS, ebola, SARS, MERS, suina, aviaria… e COVID-19. Non credo ci sia bisogno di elencare le specie serbatoio.


Ma il COVID-19, come ogni crisi, è un banco di prova che porta insegnamenti.

Ci insegna che la produzione e lo stoccaggio di beni fondamentali non può dipendere dalla domanda commerciale del momento, né dalle convenienze economiche della globalizzazione.
Ci insegna che non è possibile superare crisi del genere senza un apparato statale forte, ben organizzato, assistenziale e presente sul territorio.
Ci insegna che l’eroe solitario, tanto caro a quel mito neoliberal che liberamente si ispira a Darwin (sopravvive il più adatto al cambiamento) non è in grado di sconfiggere una pandemia:
solo una società coesa può reggere l'impatto.

Ci insegna che l’unica via d’uscita da una crisi come questa sta nell'affetto, nel rispetto tra le persone, e nella solidarietà tra stato e cittadinanza. Ce lo stanno dimostrando tutte le nazioni che lentamente si stanno riprendendo grazie alla forte coesione sociale e a interventi normativi e legislativi mirati alla tutela dei cittadini.
Cito l'Art. 32 della Costituzione. In Italia si sarà anche fatto casino, ma quest'articolo non potrà mai essere eluso:
"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti."

Un mondo da rifare.

S'è strillato sull'Europa, da abbandonare o da rifare e non senza ragioni, perché in molti, tra detrattori e stati membri, hanno dimenticato che l'Unione è stata fondata su un unico principio: la solidarietà. Ma nell'euforia del nuovo modello finanziario qualcuno si è dimenticato che solidarietà e neoliberalismo sono in perfetta antitesi. Oggi gli Stati Uniti stanno pagando a caro prezzo la mancanza di solidarietà nel sistema sociale. Stanno pagando a caro prezzo le divisioni razziali, economiche, ideologiche. Il sogno americano s'è rivelato inconsistente.

Starà a noi decidere se puntellare recenti schemi fallimentari ispirati da oltreoceano, o da est, o intraprendere strade che già conosciamo, ma che abbiamo dismesso in fretta, come l’economia Keynesiana e certi modelli socialdemocratici, abbandonati perché imbrigliavano troppo la spettacolare agilità del settore privato. Abbiamo abbandonato il sogno che quel brav'uomo di Bernie Sanders - sistematicamente affondato dai suoi - stava cercando di recuperare. Sarebbe stata una fortuna per il mondo se proprio gli Stati Uniti l'avessero ripristinato per primi.
L'eredità di quel percorso dismesso è ancora visibile: è ciò che ha reso l' Europa centrale e del nord l’unica zona dove il benessere è ancora diffuso, con paesi in cima agli standard di 'felicità interna lorda'. L'unica zona in Europa che non ha subito apocalissi sanitarie, malgrado le alte percentuali di contagi.
Ma per superare quella che si profila come una catastrofe finanziaria ci vorrebbe un punto di ri-partenza innovativo.

Un piccolo genio della lampada ce l'abbiamo. Si chiama  Green Economy.
Come ogni nuova frontiera contiene grandi opportunità di crescita, in termini di profitti e di occupazione. Non è solo un'idea 'bella e pulita': Scientific American l'ha definita: più pertinente che mai. La pandemia ha fermato molte delle nostre attività concedendo un attimo di respiro alla natura.
Chi non ne è stato felice? Perché tornare indietro?

In un momento in cui le industrie 'tradizionali' sono già al collasso è ridicolo continuare a sostenerle se perseverano su vecchi obiettivi tossici e perdenti. Situazioni come questa richiedono un cambio di paradigma, una riconversione che ci metta in armonia col pianeta e abbandoni le vecchie - e tossiche - strategie energetiche.

C'è un grosso problema:

il barile di petrolio a prezzi stracciati non è una buona notizia: rende meno competitive le rinnovabili e taglia le ali all'economia con le maggiori prospettive di crescita.
Capovolgere la situazione basata sul profitto richiede un forte intervento normativo e di investimenti da parte dei governi, richiede la forza di scommettere sulla gallina domani e non sull'uovo oggi.
Starà a noi scegliere se vogliamo un sistema che continua a percorre vecchie strade fallimentari o investire in qualcosa di nuovo e di etico, in società fatte da persone, e non da aziende, da persone che rinunciando alle libertà personali e comportandosi civilmente hanno già dimostrato di poter mettere a bada il coronavirus.

In mare esiste uno strano fenomeno chiamato il paradosso del plancton. Quando certe popolazioni di plancton rischiano di diventare infestanti entrano in gioco diversi fattori di contenimento. Tra questi fattori ci sono i virus

Cominciamo ad attrezzarci da adesso, affinché non ci sia un paradosso del 'Sapiens


Dato che non amo l'avvanvera...


Nature: l’inefficienza dell’Impero Americano  
https://www.nature.com/articles/d41586-020-01068-3
Intervista a Noam Chomsky: pandemia, società, economia.



giovedì 22 agosto 2019

L'apprendistato: un magistrale ritratto del cammino verso l'età adulta.


Il film comincia con un lungo piano sequenza notturno in una stalla. La camera è molto fluida e sono in primissima fila davanti a uno schermo gigantesco. Il primo pensiero è: se la camera è quella di Lars Von Trier, da questa distanza mi verrà la nausea. Non è questo il caso: dopo pochi secondi comincio ad avvertire gli odori della stalla. Sono lì dentro, sono nell’oscurità, dietro al ragazzo con la lampada. Poi il temporale.

Unghie sporche. Ci mette poco, il primo dettaglio significante, a bucare. Quel primissimo piano delle mani di un adolescente, un ragazzo di montagna iscrittosi ad una prestigiosa scuola alberghiera, ci annuncia subito un percorso rigorosamente in salita. E un film quasi pittorico.

Il contesto, esistente (si tratta del vero Istituto Rosmini) ci ricorda un’accademia militare storica, per le divise, per le sue vecchie mura, per la sua biblioteca, per la disciplina quasi spartana. La crescita del nuovo cadetto matura tra dure regole e frequenti colloqui, dove il protagonista, introverso e disastroso, tace e sogna il bosco, con le sue leggi come territorio di riferimento e di fuga.

La camera indugia spesso sui dettagli, sugli sguardi dei ragazzi, ma soprattutto su quello che ci raccontano le cose, sulla loro cura. Un vassoio in bilico affollato di calici, una scala dimenticata in biblioteca, un vecchio telefono su una pila di guide telefoniche. Come stendere le tovaglie e servire del vino in guanti bianchi. Come pulire i bicchieri. Spuntano continuamente oggetti quasi in disuso provenienti da un'altra epoca, indizi di decadimento che un architetto mio amico definirebbe ‘italico amore per la muffa’, spuntano quasi a confliggere con la continua richiesta di perfezione, nei gesti e nelle routine, da parte dei docenti-sistema nei confronti degli allievi.

Un film a bassissimo costo, girato nel vero collegio storico, con veri allievi e professori reali. Ma più vicino alla fiction che al documentario.
Il regista, Davide Maldi, riesce a coinvolgere e mantenere alta la tensione con piccoli stratagemmi azzeccati, alcuni dall'effetto comico, spostando la competizione sul piano interiore. Ci suggerisce che la vera lotta non è tra noi e uno sfidante in carne e ossa, ma tra noi e gli ambienti estranei, tra la realtà e il sogno, tra ciò cui aspiriamo e ciò che diverremo. L’Apprendistato non sembra neanche indulgere al ‘romanzo di formazione’. Nei romanzi di formazione compaiono dei deus-ex-machina, entità rivelatrici che inducono al cambiamento. Qui invece il percorso di crescita si gioca faticosamente, passo dopo passo, tra claustrofobia e senso di inadeguatezza, tra perfezione e decadenza, illuminato da sprazzi di estrema bellezza degni di un Luchino Visconti, nei gesti, negli sguardi e negli oggetti. Sprazzi che ci sorprendono ad ogni angolo del film.

Il racconto, lineare e ben pesato nei tempi, regge perfettamente senza cedere al facile gancio dei soliti sentimenti nazional-popolari, restando concentrato sui protagonisti, sulle loro sfide e le ribellioni, sulla perdita dei sogni. Un film crudo, dove non c’è spazio per mamme e fidanzatine.

L’apprendistato è un magistrale ritratto del cammino verso l’età adulta, di un faticoso ingresso in una società che ci accetterà solo dopo una completa spersonalizzazione. O di drastica revisione di noi stessi, dipende dai punti di vista. La cura nel montaggio, nella fotografia e soprattutto nel sonoro (una pecca purtroppo cronica nelle produzioni italiane che invece qui è stato curato al massimo) lo mette sullo stesso piano di una produzione internazionale di alto budget. Un film senza sbavature, senza errori. Un piccolo capolavoro di perfezione.

Al festival di Locarno ha avuto più repliche e sono state aperte più sale per far fronte alla generosa affluenza del pubblico. Discutibili, anche se il loro giudizio è stato molto positivo, le chiavi di lettura da parte dei conduttori del festival. Lunghissimi gli applausi dal pubblico, a prescindere dalle interpretazioni.

lunedì 12 agosto 2019

C'era una volta a Hollywood - L'ultimo Quentin Tarantino


L'ultimo film di Tarantino, c'era una volta a Hollywood, è un film d'amore.
Per il cinema, hollywoodiano e italiano, per il mestiere dell'attore.
Siamo nel 1969: una tempesta di freschezza sta rivoluzionando Hollywood. La fabbrica di sogni si trasforma in laboratorio e bandiera di un cambiamento epocale.
La nuova visione del mondo e la gioia di viverla sono incarnate da Sharon Tate (Margot Robbie). Fa da contraltare il declino del western che, come una specie che ha esaurito il suo territorio, trova altrove (in Italia) un nuovo sbocco e una nuova spinta evolutiva.

Nella capsula del tempo allestita da Tarantino la parte del leone spetta alla colonna sonora. Come d'abitudine, anche in C'era una volta a Hollywood il regista riesuma almeno una decina di vecchie hits oggi dimenticate, come Treat Her Right, un pezzo del 1965 di Roy Head and the Traits, che usa in apertura del film e The Circle Game, di Buffy Sainte Marie. Immancabili i vecchi successi ancora in onda, come California Dreaming, per cui ha scelto una versione più intimista di José Feliciano, e You Keep Me Hanging On, dei Vanilla Fudge, rimaneggiata da Tarantino stesso. I brani, tra rarità e vecchie glorie, sono ben 32. Tutti prelevati da un rigoroso frame temporale.
Tarantino li lascia galoppare volentieri lungo estesi piano-sequenza, spesso a bordo di auto, sulle strade di culto della California. Le citazioni spaziano da Easy Rider a Il Sorpasso, forse il primo tra i film on the road nella storia del cinema.


C'era una volta a Hollywood è un film divertentissimo dove però la tragedia trapela già dai primi minuti. Non è un'ombra a suggerirla, ma una presenza femminile, serena, semplice, solare.
Tutti sappiamo cosa è successo a Sharon Tate, ai suoi ospiti e al figlio che aspettava la notte dell'8 agosto del 1969, e ci basta vederla in una cabrio a fianco di Roman Polansky, o ballare ad una festa nella Playboy Mansion per avere una stretta al cuore.
Sotto il racconto principale, quello di un attore dalla carriera in bilico (Di Caprio) e dell'inseparabile controfigura che non ha paura di nulla (Brad Pitt), sotto le loro esilaranti performance, una stupenda Margot Robbie incarna il migliore dei sogni americani.

Un film che per l'uso del b/n all'inizio e l'ambientazione rigorosa affianca il magnifico Blackkklansman, di Spike Lee, ma esplorando altro. Dietro le vicende della coppia (l'attore e il suo stuntman) Tarantino ci sbatte in faccia ciò che abbiamo perso e ciò che possiamo perdere ancora, per mano di una manciata di sfigati, di falliti in preda all'esaltazione.

Ho letto che è stato giudicato lento, soprattutto all'inizio. Ma ho il sospetto che Tarantino con la lentezza abbia voluto sottolineare le sue distanze dalla Hollywood odierna, che ci bombarda con effetti speciali e montaggi veloci, una Hollywood che non vuole più pensare, che assomiglia sempre di più ai fumetti e ai videogames. E sempre meno a sé stessa.
Un film forse diverso, per certi versi amaro e commovente, ma solo quanto può esserlo un Tarantino, un autore fedele a sé stesso, alle sue bizzarre manie, alle sue trovate dissacranti, e sempre capace di stupirci. Uno che non è mai scivolato per più di un gradino sotto il capolavoro.
Forse il suo miglior film, folle e profondo.

Sei minuti di standing ovation a Cannes.
Vice campione d'incassi in USA.


lunedì 12 novembre 2018

il primo uomo - lasciatevi annoiare



Lasciatevi annoiare, da un film decisamente lento e claustrofobico, da una rilettura personale del regista faticosa da condividere. Chazelle, nel portare First Man nel suo contesto c’è riuscito solo nei dettagli maniacali su rivetti, tubi e interruttori a levetta, cioè nel ricostruire un’astronautica da medioevo agli occhi moderni. È vero: l’uomo sulla luna c’è andato con computer che avevano la metà della potenza di quelli che oggi monta una mediocre auto di serie, e quei costosi gingilli spaziali erano anche pericolosi. Buoni anche l’effetto sgranato-vintage delle immagini e qualche chicca d'archivio.

Fine delle cose azzeccate.

Il Neil Armostrong dipinto da Chazelle ci ricorda più l’astronauta imbambolato e spaesato di un famoso video di Moby che un eroe riluttante: Neil Armstrong. Il ritratto che ne esce fuori è quello di un individuo freddo, introverso e introspettivo. 
Sarà perché gli americani moderni, come del resto i francesi e gli italiani, faticano a comprendere la sobria virtù dell’understatment, confondendola per qualcos’altro?




Un film che nelle mani di Clint Eastwood, così bravo a dipingere eroi riluttanti, avrebbe guadagnato la standing ovation di un pubblico commosso. E probabilmente una sfilza di Oscar. Invece abbiamo una lenta, scialba melensaggine difficile da seguire sul grande schermo anche per l’uso smodato di immagini mosse, estenuanti primi piani, e una camera a mano che ricorda i peggiori Von Trier. Un film che sembra più adatto all’iPhone che al cinema.
Innumerevoli i tentativi di introspezione sognante alla Terrence Malick, ma senza quelle profondità di campo vertiginose, neanche nelle scene sulla luna, che appaiono piatte e didascaliche, come nelle serie TV di fantascienza degli anni ’70. Spazio 1999, per intenderci.

Leggo che il regista è nato nel 1985. Mi rendo conto che non ha mai gattonato sulle immagini di Epoca e Life, che pur è riuscito a riprodurre egregiamente nella fotografia, ma manca un intero pathos. Quando cadde il muro di Berlino lui aveva 6 anni. Non ha vissuto la guerra fredda, con l’incubo, e talvolta la speranza, di vedere distrutto il pianeta da un momento all’altro, quel senso di precarietà che ha marcato la nostra generazione, la X, per intenderci. E probabilmente non ha sognato da piccolo, come molti di noi,  di diventare astronauta. Così ne esce fuori un film claustrofobico, da luci artificiali e da spazio sempre scuro, l'antitesi della libertà assoluta e di conquista che esso rappresenta.

Certamente quell’avventura sulla luna, dopo gli entusiasmi, ha lasciato perplessa anche la nostra generazione. C’era da sfidare la Russia a livello d’immagine, mostrando a tutti la tecnologia. Più tardi c’era da sviare l’opinione pubblica sulla guerra in Vietnam. Tutto ciò nel film viene reso decentemente con spezzoni d’archivio. Si parla di Vietnam, di miseria nelle città americane, Ma l’uomo bianco è sulla luna, canta Gil Scott-Heron, forse l’unica trovata geniale del film insieme a una intervista a Kurt Vonnegut. In una lettura del genere salta all'occhio l’assenza di atmosfera da guerra fredda quel pane quotidiano che arrivava dalle TV e da capolavori come Il dottor Stranamore e A prova di errore.

La situazione negletta delle mogli degli eroi, di quegli anni e non solo, è resa solo parzialmente da una pur magnifica Claire Foy. La cui unica colpa nel non aver convinto come personaggio (neanche sull’adagio avvilente ‘accanto a ogni grande uomo c’è una grande donna) è solo in una sceneggiatura scialba.
Un film velleitario, insomma, con in testa la notte degli Oscar 2019, anno in cui cadrà il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla luna. Un tentativo di replica dell’oscar, quando già il primo, di Chazelle, ci ha lasciati perplessi.

Un film forse fatto in fretta. Un film narrato dalla prospettiva dell'incubo claustrofobico e scuro, più che da quella del folle sogno maledettamente umano. 
Ma non me la prendo con Chazelle, che può avere tutte le letture che vuole, anche di un fatto storico, usando tutti gli stili farlocchi che vuole. 
Me la prendo con Hollywood. 
Clint Eastwood, coetaneo di Neil Armstrong, ha ormai 88 anni. Ma mi chiedo: con tutti i registi della nostra generazione X ancora vivi e prestanti, pieni d'energia, perché proprio Chazelle su un film così importante?

Qui un'intervista al figlio di Neil Armstrong sul film










lunedì 8 ottobre 2018

nakata sulla spiaggia



Avrà avuto tra i sessanta o i settant'anni, ma è difficile indovinare l'età di un giapponese. Non parlava coi gatti, contava in silenzio le uova di tartaruga su una spiaggia di Yakushima. Solo due anni dopo, cioè adesso, ho capito chi era.
Ero rimasto sveglio per tutta la notte. C'era stata la luna piena e le tartarughe avevano risalito faticosamente la spiaggia per depositare le uova davanti al nostro lodge. Avevo azzeccato la luna giusta. All'alba la spiaggia era piena di nidi, di tracce che venivano e tornavano al mare. Il vento era così forte che la sabbia grossa sembrava ferire come mille rasoi attraverso la camicia in poliestere. Il cielo era una coltre grigia e le onde si abbattevano come lenzuoli agitati.




Nakata era lì, in una tutina impermeabile azzurro cielo. Mi apparve nel binocolo quando lo smeriglio smise di minacciare le lenti. Scavava  i nidi a mani nude, pensai che fosse un bracconiere. Indossai la cerata e andai da lui. Quando fui abbastanza vicino vidi che era assorto in un formulario. Era seduto e aveva i capelli bianchi. Anche se c'era vento faceva caldo, il caldo umido di giugno. Immaginai che stesse scoppiando, in quella sottile cerata che lo copriva da capo a piedi. Lo salutai e lui annuì. Continuò a riempire moduli, grattandosi ogni tanto il capo con la penna. Dopo un po' che ero lì con lui capii che era muto. Pensai anche che non si può mai dire, i giapponesi spesso sono molto timidi nel parlare con gli stranieri, pensai. La mia presenza non sembrava infastidirlo, anzi sembrava felice che ci fosse qualcuno lì accanto, come lo sono a volte i gatti anche quando non danno confidenza. Si muoveva con una certa lentezza. Prima di riempire una casella si imbambolava ogni volta, come se ci dovesse pensare su parecchio. Tutto in lui sembrava accadere con un certo ritardo. Prese le uova che aveva appena contato e le mise in un sacco di plastica, poi le rovesciò in un buco più a monte, entro la zona recintata della spiaggia, dove né i turisti né l'erosione potevano minacciarle. Lo aiutai a scavare un altro nido. a un certo punto prese delle uova e me le mise in mano. Me le affidò come si affidano i propri piccoli. Erano grandi come palline da golf e altrettanto pesanti. Quando furono tutte in superficie le divise in piccoli mucchi per contarle. Le contò più volte, poi con estrema attenzione scrisse il numero per me sulla sabbia, una cifra per volta.




Fino ad allora non avevamo mai incrociato lo sguardo, l'aveva tenuto basso o verso il mare a lungo, per tutto il tempo. Nei suoi occhi c'era una malinconia mite, ma densa. Era chiuso in un mondo innocente, basico, irraggiungibile. Lo salutai pensando che quel lavoro metodico e solitario era forse l'unico che potesse svolgere. Uno dei tanti piani governativi che inseriscono le persone che hanno delle difficoltà. Forse era soltanto muto, ma quello sguardo.




Per circa due anni mi sono chiesto chi fosse davvero. Sentivo solo che era stato un incontro importante, così importante che non puoi approfondire. Sembrava uscito da un sogno dopo la tempesta di sabbia. Per circa due anni ho pensato che nel profondo, avrei voluto essere lui.

Poi è spuntato in un libro di Murakami, Kafka sulla spiaggia.

Era Nakata.





martedì 7 agosto 2018

BlacKkKlansman di Spike Lee - standing ovation per i diritti umani


Sotto la pioggia battentein Piazza Grande, malgrado le previsioni, tutti attendono il film di Spike Lee, vincitore del premio della giuria a Cannes, e che uscirà nelle sale americane il 10 agosto, e a fine settembre nelle sale Italiane. Kate Gilmore alta commissaria dell'ONU per i diritti umani, prende la parola e infiamma la piazza. Qui il video del suo intervento.

"We have to stand for our rights!"
"Alla nascita siamo tutti uguali - dice Kate Gilmore - nei nostri diritti e nella nostra dignità. Ma ora più che mai dobbiamo alzarci in piedi per i nostri diritti, levare il pugno e gridare: We stand for our rights! Perché vogliamo amare, ed essere amati!"
Si alzano tutti, chiusi nelle mantelline di cellophane. Alcuni levano il pugno, altri applaudono e basta. L'emozione è spessa, da tagliare con il coltello. Se un alto commissario delle Nazioni Unite come Kate Gilmore interviene alla presentazione di un film con un discorso forte, rivoluzionario, il film che sta per essere proiettato è di grande spessore.

 BlacKkKlansman comincia come una commedia, con un footage in bianco e nero di un senatore repubblicano che illustra il 'piano giudaico' di corruzione della purezza bianco-americana a favore degli inferiori neri. Ridiamo amaro, perché ci ricorda l'accanimento ridicolo di certe frange verso Soros e le famigerate lobby ebraiche. Il finto filmato in BN è datato: 1957.

Passiamo agli anni'70, quando l'unico poliziotto nero, Ron Stallworth, viene assunto dalla polizia di Colorado Springs. Scopro su internet che è una storia vera. Ron Stallworth viene dapprima impiegato come agente 'undercover' per spiare il movimento Black Power, ma poi s'infiltra, grazie alla sua capacità di imitare slang e frasi fatte dei bianchi, nel Ku Klux Klan. Tra le frasi fatte: 'Dio benedica l'America bianca', 'sono un vero Americano' e, a un certo punto, l'attesissimo: 'America first'.

Le telefonate dal commissariato, dove Ron Stallworth parla da bianco suprematista, e dichiara di odiare a morte i neri, sono semplicemente da Oscar. Ovviamente, non può andare alle riunioni del KKK. Mandano al suo posto un altro agente, Zimmermann, un collega ebreo, al quale Ron insegnerà a parlare da suprematista. Questa parte è stata sicuramente la più grande sfida per i doppiatori italiani. Sono curioso di vedere come hanno risolto battute e frasi idiomatiche che in italiano non hanno alcun senso.

Tutto si svolge a metà tra la commedia e il thriller, in un film popolato da stereotipi dei quali spesso snobbiamo la forza e l'utilità ai nostri tempi. Il KKK si riunisce in un poligono di tiro dove il culto delle armi ed il loro uso ci ricorda l'altra tristerrima lobby che è il National Rifle Association. 

In una Hollywood che dichiara che la grandezza del 'villain', il cattivo, fa il film, Spike Lee non cede. Non cede all'esaltazione dell'antagonista nella sua grande, irrinunciabile vocazione al male. Penso che nessuno abbia mai descritto meglio i membri del KKK, almeno come li immagino io: una fauna umana che va dall' infighettato David Duke, Gran Maestro degli Incappucciati, al border-line, dall'alcolizzato all'idiota, all'efficientista nevrotico in stile Himmler. 
Essenzialmente ridicoli, imbecilli, ma mai abbastanza da cadere nella 'macchietta' che fa tanto innocuo. La loro pericolosità latente si attiva dove il film dalla commedia vira verso il thriller. 
Con un tocco che solo un grande regista può permettersi senza inciampi.

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Dalla scena in discoteca che sembra un video dei Boney-M, alla dissertazione sui film della 'Blaxploitation', fino a Henry Belafonte che interpreta un anziano testimone delle violenze del 1915 su una sedia di vimini alla 'Emmanuelle', le chicche e i cameo sono innumerevoli.
Tra abiti, colonna sonora e automobili d'epoca, BlacKkKlansman ci sembra un viaggio indietro negli anni '70.

E invece non lo è.
Questo viaggio che inizia con il video del senatore del '57 si conclude con la crudezza scioccante delle immagini di Charlottesville, lo scorso agosto, e con le dichiarazioni di Trump. Immagini che dovrebbero scuotere ogni abitante degno di vivere su questo pianeta. Basta andare su Youtube e digitare 'police brutality' o 'black lives matter'  per capire cosa sta succedendo negli USA. 
Questo salto di stile narrativo lascia più arrabbiati che 'pieni di domande'. Ma ci sta, ci sta tutto. Il film uscirà nelle sale americane due giorni prima degli incidenti di Charlottesville, dove una ragazza (bianca) Heather Heyer, di 32 anni perse la vita il 12 agosto 2017 per colpa di un suprematista bianco che lanciò la sua auto sulla folla.
A lei è dedicato il film.
Non c'è niente di così illegittimo e ingiustificabile come il movimento dei suprematisti bianchi. Vittime rabbiose, più o meno consapevoli, di ideologie assurde, antiscientifiche. Soprattutto velenose, manipolati dal 'Divide et impera'.
Mai come ora c'è stato bisogno di un film godibile, magnifico e duro, come questo di Spike Lee.
La piazza ha rinnovato l'ovazione anche al regista.


venerdì 6 luglio 2018

perchè il cry-out sui diritti d'autore non mi ha convinto




Parliamo tutti di evoluzione, di un ‘nuovo ambiente’ cui i media tradizionali devono adattarsi. Il nuovo ambiente in realtà è composto di due sistemi diversi. Uno è quello dei social, che possiamo paragonare a un buco nero, con la loro struttura centripeta. L’altro è quello dei motori di ricerca, che ha dinamiche centrifughe, cioè l’esatto contrario.
Gli utenti dei social sono prevalentemente utenti da 150 caratteri, meme e foto del micio, gli utenti di Google sono quelli che scartabellano a fondo Wikipedia e i vari contenuti su altri siti d’informazione. Ci trasformiamo in una delle due forme di utenza quando decidiamo di rivolgerci all’uno o all’altro di questi due sistemi. Equipararli legislativamente imponendo a entrambi i sistemi una tassa sui link (quando poi il vero topic sarebbero gli estratti) è un errore grossolano. Significa che  non si è capito bene cosa è il web.

Dall’altra parte c’è il disprezzo dei social media e di Google nei confronti dei diritti d’autore, che va frenato. I diritti d’autore non sono una bieca espressione del capitalismo, come mi pare di cogliere a volte, ma costituiscono il sostentamento di milioni di persone per niente capitaliste (come me per esempio) che campano di copie vendute, o di un passaggio radio o TV in più di un loro ‘prodotto intellettuale’. Nell’intrattenimento e nei media non ci sono molte altre forme di remunerazione. Quando (se) passa, o vende (se vende), prendi i soldi. Punto. Oppure prendi i soldi da una testata d’informazione, che a sua volta ha il diritto di tutelarsi, visto che paga per i contenuti e cerca di sopravvivere con la pubblicità e gli abbonamenti. The Guardian un paio d’anni fa ha provato (pubblicizzandosi su se stesso) che Google trattiene più dell’80% degli introiti pubblicitari. Su ogni sterlina investita dalla testata sulle sue stesse pagine, ha avuto indietro solo 20 pence. 

Il piano di  Big Data è evidente: sostituirsi agli editori e intascare utili spaventosi gestendo il monopolio della pubblicità, e dato che c'è, anche delle informazioni. Per darvi una idea: con un blog da 100.000 visite all’anno da Google intaschereste al massimo 100 Euro. È giusto che sopravvivano solo quelli capaci di milioni click, magari su un solo post, o un solo video diventato virale? Sparirebbero tutte le testate autorevoli, tutte le informazioni in una lingua minoritaria, tutto ciò che è di nicchia per far posto ai tabloid e alla fuffa, agli acchiappa-click. Avremmo un’informazione fatta esclusivamente di annunci pubblicitari mascherati, di pitoni che mangiano poveri contadini, o di Belen che girano nude davanti al (povero) bambino. O notizie non verificate. Con il mito del citizen-journalism, il gratis e le tariffeoffensive che vengono erogate ai freelance, l’informazione è giàin serio pericolo. Complici, va detto, anche gli editori.

Ma sotto la bandiera ‘no-copyright’ e ‘libertà di informazione’ può nascondersi una realtà molto più insidiosa di un semplice sogno utopico. Sono convinto che molti ci siano cascati in buona fede, ma per favore, non confondiamo le royalties percepite da certe farmaceutiche o da gente come Schkreli, con i diritti d’autore sull’informazione o sull’intrattenimento: questo è vero fumo negli occhi. Non  possiamo non vedere che i governi, a grande richiesta popolare, sono sempre meno disposti a investire in questi campi. Troppi sprechi! Troppa lottizzazione dei partiti! Via i sostegni alla cultura, all’informazione, tanto i giovani guardano youtube… a che serve una TV di stato? Vi suona familiare il ritornello? Bene, vi state abituando a ciò che ci aspetta: il monopolio totale di Big Data, dove la gente produce contenuti gratis pur di farsi un nome, o semplicemente apparire. È già in atto.

Per quanto maldestri, approvo i tentativi dell’Unione Europea di mettere un freno allo strapotere di Big Data, tra l’altro: corporate americane che eludono sistematicamente le tasse. L’Europa è probabilmente l’unica entità politica al mondo che può opporsi con successo, anche se disapprovo questo approccio che mi è parso più lobbistico che ben intenzionato. Ma nessuno degli stati membri potrebbe vincere da solo, contro mostri capaci del bilancio di una o più nazioni europee insieme. Poi  ci sono l’Iran, l’Egitto, la Cina… anche loro mettono paletti. Ma per altri motivi. Adesso sì, possiamo parlare di censura.




Seguendo un sempre valido suggerimento di Noam Chomsky, 
riporto il link di un giornale finanziario: alla finanza (sostiene Chomsky) interessano i fatti, non le emozioni.







mercoledì 20 giugno 2018

il senso della bellezza - recensione



Una delle più grandi meraviglie del mondo è a 100 metri sottoterra. E' un anello di 27km, composto da magneti superconduttori e da due acceleratori di particelle. Si chiama LHC, Large Hadron Collider ed è gestito dal CERN di Ginevra.

LHC è più di un viaggio spaziale, è un viaggio nei segreti più profondi dell’universo. E nella mente umana. La camera si cala nelle viscere di questo Leviatano che quando viene risvegliato per un esperimento (della durata di poche frazioni di secondo) assorbe più energia di quanta ne consumi l’intera città di Ginevra in un giorno. Lì dentro gli scienziati fanno scontrare le particelle per scrutare le pieghe infinitesimali della materia. Le collisionni avvengono a velocità prossima a quella della luce, dentro tubi che operano in sottovuoto, a temperature vicino allo zero assoluto: -271°C. 




Il senso della bellezza, attraverso LHC, ci porta nel regno dell’intangibile, indietro nel tempo fino allo stato della materia pochi milionesimi di secondo dopo il Big-Bang. Lì la mente umana entra nel inimmaginabile. Lo fa con calcoli, teorie. Osserva l’inosservabile con stratagemmi tecnologici che sanno di empirismo. Guai a chiamare l'immagine di una collisione 'fotografia'. Se c’è qualcosa di veramente astratto nell'esperienza umana, è la fisica delle particelle.

Allora la camera indugia sugli scienziati, poi sugli artisti, ispirati dalla fisica delle particelle e dalle immagini prodotte dalle macchine che registrano l’insondabile. Una camera sempre neutrale, che con inquadrature ravvicinate e senza sfondo sposta il punto di vista sul pensiero del soggetto. Ciò che accomuna artisti e scienziati sono le loro domande e la loro immaginazione. Scorrono le immagini di LHC, un monumento alla curiosità umana, ma anche di altre opere d’arte.



Il quadro di Gauguin ‘Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?’ (che ci sta tutto) innesca però una deriva narrativa un po’ metafisica, che non mi aspettavo. Il regista ha indagato le macchine, il pensiero scientifico e le opere ispirate a quel pensiero, evitando sapientemente le sabbie mobili di una fisica delle micro-particelle ‘for dummies.’ Ma non è riuscito a tenersi lontano, anche se ci è scivolato per pochissimi minuti, da considerazioni sulla trascendenza con una voce fuori campo, considerazioni che stanno così bene nei film di Malick, che basa tutto sulla trascendenza. Tutti gli altri faticano un po’. 

Questa deriva m’è sembrata un mezzo agguato teso dal Bosone di Dio. Così i non addetti ai lavori (ma forse fa eccezione Zichichi) hanno battezzato il bosone di Higgs, rilevato per la prima volta proprio al CERN, nel 2012. Forse le immagini di sfondo a queste considerazioni, immagini della natura, non erano all’altezza delle altre immagini. E al posto dell’iconografia cattolica mi sarei aspettato una profusione di mandala. Ho avuto la sensazione di qualcosa di 'esterno' e non di 'eterno', e vista la qualità... di ‘aggiunto’. Ad ogni modo la deriva che proprio non m’ha convinto prende pochissimi minuti, su un lavoro per tutto il resto breath-taking. Alla fine al centro ci sono le domande, e non le risposte.
Un film che rivedrei molto volentieri. Una gran bella indagine.

Ecco cosa stanno cercando adesso al CERN. Sono sicuro che qualcuno ci leggerà il Fiat Lux.





giovedì 3 maggio 2018

sono angelica voglio vendetta




Diceva Pasolini che per decidere se leggere un libro o meno gli bastava aprire una pagina a caso. Se applichiamo la massima al cinema, un buon film lo riconosci da una sola inquadratura. Le due tecniche insegnano un’arte rara e utile in questa breve vita, quella di non perdere tempo con la fuffa.

Questo per dirvi che di ‘Sono Angelica voglio vendetta’ non c’è una immagine che non lasci a bocca aperta, che non voglia farsi seguire. Il film, tra i vari intenti, sembra voler esplorare l’altra Grande Bellezza che è Firenze. Anche se trailer e materiale postato online non rendono giustizia a questo tipo di contenuti, per molti versi il film è capace della stessa opulenza del film di Sorrentino. Con meno del 5% di budget. Qui la Grande Bellezza sullo sfondo fa da contraltare a una narrativa dark, psichedelica, crudissima. Genuinamente underground.


 Il soggetto del film ha una tempistica da social, ma nella testa dell’autore, sceneggiatore e regista, e cioè Andrea Zingoni, nasce almeno un decennio prima dell’hashtag #Me Too. Angelica è una giovanissima DJ che subisce una violenza sessuale d’una brutalità irrivelabile. Così indicibile che il ricordo verrà visualizzato in pieno solo quando Angelica, in via di guarigione, riuscirà a farci i conti. Ci riuscirà attraverso uno sciamano. Ma la sua guarigione corrisponderà alla vendetta.

‘Angelica’ non è un film ordinario. La narrazione si serve spesso di simboli e di allegorie che per certi versi mi ricordano il vecchio Bergman, ma anche alcuni lavori dell'ultimo Von Trier, con inquadrature e immagini che sono vere e proprie installazioni dal gusto rinascimentale e/o psichedelico. Con il tocco di un rinomato cartoonist, il regista. I richiami a Castaneda, Aleister Crowley, Campbell e McKenna sono innumerevoli, ma non sono lì  per il sollucchero degli intellettuali (credo che quelli in sala non se ne siano nemmeno accorti) ma per il pubblico, che non ha bisogno di esegesi, ma di immagini belle e potenti.
 Notevole anche la colonna sonora, azzeccata e up-to-date, una bella sorpresa alla quale il cinema italiano ci aveva ormai disabituati.
Se proprio devo cercare una pecca in un film stilisticamente straordinario, la troverei nella reiterazione del ricordo (all’inizio frammentato) dello stupro, che toglie un po' allo shock finale, e nella lentezza di alcune scene del recupero di Angelica, dove la camera indulge compiaciuta sulla bellezza dello sfondo, gli angoli magici di Firenze dietro una Angelica zoppicante. Ma in fondo Sorrentino ha fatto la stessa cosa con Roma. E ha vinto un Oscar.


Ciò che invece mi ha lasciato basito è stata l’attenzione delle critiche sulla vendetta in sé. Non so cosa sia successo alla gente, saranno i film americani a lieto fine, o gli osannati romanzi di formazione? La vendetta abita da sempre le fondamenta della drammaturgia. La punizione degli dei alla yhbris umana era vendetta. Dal teatro greco a Shakespeare la vendetta (come del resto il Fato) è nell’immaginario umano, è necessità di una giustizia divina della quale siamo sempre più orfani. Che la vendetta sia diseducativa ci può stare, ma cosa resterebbe di noi senza il Macbeth, o l’Odissea?

https://it.wikipedia.org/wiki/Sono_Angelica,_voglio_vendetta

http://www.controradio.it/sono-angelica-voglio-vendetta/

http://www.sonoangelicavogliovendetta.it/

sabato 24 marzo 2018

povere faccine


“Dumb fucks.” That’s how Mark Zuckerberg described users of Facebook for trusting him with their personal data back in 2004. If the last week is anything to go by, he was right. (The Guardian) 

Ve lo traduco io: 'Poveri coglioni. Così Mark Zuckerberg apostrofava gli utenti di Facebook per avergli affidato i loro dati personali già nel 2004. Da quanto emerge dall’ultima settimana, aveva ragione.' Lo trovo scritto oggi su The Guardian.

 Non troppi mesi fa, a settembre 2017, Internazionale titolava: “Facebook: la merce sei tu”
Lo scandalo di facebook (se è uno scandalo il fatto che qualcuno ti offre un sacco di trappole e di giochini gratis e poi si prende qualcosina da te) ha assunto queste dimensioni perché stavolta ci sono di mezzo le più controverse elezioni del più controverso presidente degli Stati Uniti. Se l’utente finale fosse stato Zara o la Chicco non ci sarebbe stato tutto questo casino.

E di nuovo l’attenzione verte sulla privacy mentre il problema grave è un altro, è la manipolazione dell'utente, qualcosa che ha stravolto le abitudini dell’umanità, cioè... del povero coglione.
Facebook, grazie ai suoi osannati studi di grande valore sociale per l'umanità (come quelli condotti da Cambridge Analytica per intenderci) ci ha fatto scoprire i sei gradi di separazione quarant'anni dopo Milgram, e si è insinuato non come un link, ma come un filtro tra le vite delle persone. Nelle vostre vite. Non ha mai avuto nessuna intenzione di unire, ma di dividere. Tutti coloro che ci hanno lavorato su per farlo diventare il mostro che è hanno fatto un pubblico mea culpa, sputtanando le sue vere intenzioni manipolatorie.

Facebook ha scientemente distolto l’attenzione del pubblico dall’Informazione degna di questo nome per spartirsi con Google l’80% del mercato pubblicitario, con ricavi sulle inserzioni che vanno oltre l'80%. Cioè, se tu inserzionista paghi per la pubblicità un Euro, quello che la ospita riceve 20 centesimi. Nessuna agenzia pubblicitaria sul pianeta ha mai guadagnato tanto. In un attimo hanno spazzato via tutti i piccoli e medi magazine, i blog, i giornali, insieme a tutto ciò che non raggiunge il milione di click. Ma non solo, ha fatto sparire le altre comunità, come appunto i Forum, che ora languono per mancanza di utenti e di contenuti con introiti pubblicitari ridotti alla loro radice quadra. Con la cultura del gratis si uccide a poco a poco la libertà d'informazione.

L’ho sempre percepito come un buco nero, facebook, un buco nero che fagocita tutto, capace di un’attrazione tale da non far uscire più nulla. Nel buco nero un intero universo si rimpicciolisce e quotidiani come La Repubblica o La Stampa hanno la stessa statura di un Pippo Terrapiatta. E c'è pure chi la chiama democrazia. 

Per anni gli amici esperti di marketing mi hanno rivolto facce allibite, non avrebbero guardato in quel modo neanche un eschimese vegano, neanche Theresa May se gli fosse entrata dalla finestra del bagno in sottana di Swarovsky e tirabaffi. 

“Facebook è un grande strumento, devi solo usarlo” 
Un coro. Come se quel buco nero, frutto di 'studi psicometrici' e arte manipolatoria fosse stato un innocuo aggeggio costruito apposta per me, per noi, da quel compagnone di Zuckerberg che voleva solo vederci tutti contenti a salutare gli amichetti della 1a B. 
Andy Warhol e i suoi 15 minuti di celebrità per tutti ci sorridevano dal cielo.

E intanto l’editoria crollava, collassava insieme all’autorevolezza delle opinioni, della veridicità delle fonti, sommersa dagli strilli, dagli allarmi rettiliani, dalle foto dei cani, dei gatti e dei piatti nel ristorante chic, dalla cultura del gratis, dalle labbra a canotto delle selfiste, dai maschi tatuati con la barba rada, dalla forza organizzata dei troll. Sommersa dalla fuffa. 
L'editoria s'è suicidata entrando nel buco nero per ‘usarlo a suo vantaggio’.

Sull'onda di Facebook i social si sono inseriti come filtro tra noi e il mondo esterno, tutto deve passare attraverso loro. Ora la gente gira immersa in un telefonino. In viaggio nessuno guarda più niente, tutti fotografano. E postano foto. Nessuno legge più niente, tutti scorrono velocemente, ma soprattutto scrivono. Scrivono e mettono faccine. Una volta c’era il bar, o il circolo. C’erano il telefono e le email. E se uno non usava il deodorante lo sapevi da subito.

Ma lo scandalo, a quanto pare, è solo nella gestione dei nostri dati e della nostra privacy. Bello, comunque, vedere le facce di quelli che comprano i vostri dati, guardarli su Channel4 mentre offrono a un giornalista sotto copertura di mettere nel letto degli avversari politici le prostitute, di lanciare campagne a suon di trollate, insulti urlati e dossieraggio. 

Ho detto vostri dati perché in questa settimana, non solo Zuckerberg ha dimostrato di avere ragione, nell’aver considerato i suoi utenti ‘dumb fucks’ poveri coglioni, ma anche io, e tutti quelli come me che su facebook non ci sono e non ci saranno mai. Senza mai aver dato del coglione a quelli che c'erano.

https://www.theguardian.com/technology/2018/mar/24/cambridge-analytica-week-that-shattered-facebook-privacy

http://www.businessinsider.com/well-these-new-zuckerberg-ims-wont-help-facebooks-privacy-problems-2010-5